Di studenti, didattica e altro

I

Agli studenti piace molto quando si spiegano loro le cose, un po’ perché hanno una curiosità insopprimibile e mantengono sempre un filo di speranza nel fatto che gli adulti possano appagarla, un po’ perché mentre si dialoga si accorgono che ci si sta rivolgendo proprio a loro e si sentono considerati e rispettati nel loro esserci e nella loro intelligenza. Invece dopo mezz’ora di “didattica innovativa” impersonale, fine e non più mezzo, in cui loro stessi scompaiono, cannibalizzati dall’idea astratta dell’innovazione (vedi certi corsi on line nell’ambito dei “PCTO”, o quando vengono piazzati in isolamento forzato davanti ai device, o anche durante dei sedicenti “lavori di gruppo” privi di senso e significato), sono già stanchi e demotivati, si spengono ed entrano in modalità burocratica, proprio come gli adulti.

II
Dare il giusto riconoscimento alla preparazione, alla bravura e all’intelligenza di una studentessa senza che questo significhi sminuire altri. Ieri ho fatto così: “Ragazzi, ascoltate con attenzione quello che dice Rachele, che sta spiegando benissimo l’argomento. Avete presente i neuroni specchio? Quelli per cui le connessioni cerebrali legate a un’attività si creano non solo facendola, quell’attività, ma anche vedendola fare? Ecco, con il pensiero succede la stessa cosa: chi segue un pensiero altrui ben argomentato in quel momento sta pensando a sua volta; e il discorso che sentite è come se lo faceste voi”.

III
I miei studenti di prima superiore ripetendo insieme le coniugazioni dei verbi non solo le imparano ma sentono meno l’ansia e l’angoscia dei quindici anni: ogni tanto un appiglio di certezze tangibili (il congiuntivo imperfetto di un verbo è sempre lo stesso), che passa per la soddisfazione di capire e imparare insieme, li tranquillizza molto rispetto alla confusione che sentono dentro, tipica di un’età di cambiamento e di inquietudini e incertezze difficili da esprimere. Poi si passa a discorsi legati alle storie e ai racconti, e al senso stesso delle parole, e si aprono spiragli di pensiero che vanno molto più in profondità. Alternare attività più strutturate, che “contengono” e rassicurano, ad altre che richiedono un coinvolgimento maggiore del pensiero e dell’emotività è fondamentale, in certe fasi della crescita.

Sarebbe bello se chi sproloquia di scuola da “esperto” su voti, ansia, “didattica trasmissiva” e di tutto un po’ avesse non dico autentiche conoscenze di psicologia dell’età evolutiva, che sarebbe chiedere troppo, ma almeno una conoscenza minima di come sono fatti gli adolescenti…

P.s. Questa naturalmente è solo una parte della questione. C’è poi un disagio giovanile dilagante che andrebbe affrontato con adeguati strumenti psicologici. Relazione scolastica e lavoro sui contenuti culturali possono fare molto ma a volte non sono sufficienti.

IV
Se si fa notare che moltissimi studenti delle scuole superiori non hanno idea di cosa significhi “prevenuto”, “succube”, “pudore”, “ambiguo”, “stravagante”, “pregiudizio”, “abusare” o “regredire” (per fare qualche esempio a caso), che hanno una calligrafia illeggibile, che a quattordici anni scrivono “mescolazione” per mescolanza, “il gruppo si riugniva” e “millegni” invece che “millenni”, arrivano subito degli attempati giovanilisti che accusano gli “insegnanti-boomer” di essere contro i giovanissimi e la loro cultura, di essere dei rappresentanti dell’eterna scontentezza dei vecchi verso i giovani, di essere i soliti laudatores temporis acti.

A me, quando vedo studenti che non riescono a scrivere una frase dotata di coerenza logica e di una correttezza ortografica minima, sinceramente si stringe il cuore: altro che odio verso i giovani. Se dovessi detestare qualcuno, detesterei chi per motivi poco nobili vuole negare a tutti i costi che ci sia una progressiva perdita di consuetudine dei giovanissimi con la parola scritta e chi finge di non vedere come il sostare poco, già dalla scuola primaria, sui saperi e sulle abilità fondamentali, a favore di una burodidattica inter-pluri-multi disciplinare presuntamente leggera, in realtà superficiale e irresponsabile, abbia degli effetti a cascata su tutto il percorso futuro degli studenti.

V
“… l’eroe, che nonostante avesse assunto lo stesso farmaco che avevano assunto i suoi compagni, non gli fece effetto”; “per poi ritrovarsi su un’isola che solo poco dopo capì che il suo nome era l’isola dei Feaci”.

Prendo questi due esempi ravvicinati di anacoluto, sempre più diffuso negli elaborati dei nostri studenti, per segnalare come le difficoltà sintattiche dei giovanissimi siano altrettanto se non più preoccupanti della scorrettezza ortografica e dell’impoverimento lessicale (dove il problema non è certo l’ignoranza del significato di “pedissequo” o “sesquipedale”, a cui qualcuno vorrebbe ridurre la questione, ma la mancanza di un lessico minimo che permetta di andare oltre l’immediatezza dell’esperienza quotidiana), tutti fenomeni che gli esperti della patagogia, magari in salsa socio-lingustica, si affrettano a negare, forse perché riconoscerli significherebbe riconoscere che la cosiddetta innovazione pedagogica nella scuola primaria – quella che porta a soffermarsi poco sulle abilità e le conoscenze di base – così come il dilagare del digitale a scapito di modalità di comunicazione che permettano una maggiore elaborazione del pensiero non sono benèfici come ci avevano raccontato.


VI
Scorro un manuale di didattica per Unità Di Apprendimento, riguardante le materie letterarie, scritto da insegnanti. La cosa più terribile non sono le incredibili banalità che suggerisce come “nuovo”, “innovazioni” che dovrebbero essere capaci di per sé di coinvolgere ed entusiasmare gli studenti – in realtà pompose e imbarazzanti scoperte dell’acqua calda appesantite da un assurdo gergo pseudo-tecnico e condite da spaventose perdite di tempo (debate del tutto pretestuosi, ‘nuove tecnologie’ infilate a forza in ogni percorso, flipped classroom e cooperative learning adottati solo per far vedere che si utilizzano la flipped classroom e il cooperative learning, senza nessun interesse culturale per l’argomento proposto); no, la cosa più terribile sono i perentori indicativi: “attraverso questa attività lo studente SVILUPPERÀ la competenza per…; lo studente a questo punto POSSIEDE le competenze…”, come se l’istruzione fosse un montaggio infallibile di mattoncini Lego, in cui tutto è misurabile e prevedibile a priori. Ma gli esseri umani, tanto più le persone in crescita, non sono macchine o robot perfettamente programmabili; e in un sistema non totalitario non può esistere una scuola che non lasci spazio all’imprevedibilità dei percorsi conoscitivi e culturali e della risposta individuale, alla ricca complessità del rapporto educativo e degli aspetti emotivi dell’apprendimento. Fare scuola dovrebbe aprire il campo del possibile nella mente dei nostri studenti, non chiuderlo in una recita tecnicistica priva di ogni sostanza e verità.


VII
Interi popoli, con pochissime eccezioni al loro interno, hanno potuto credere ciecamente per secoli all’esistenza delle streghe e alla necessità di uccidere gli infedeli per volontà di Dio o, più di recente, all’esistenza delle razze e alla superiorità della razza ariana.

Se una prospettiva storica ci mostra come ogni epoca sia stata segnata da fedi e da idee che noi oggi consideriamo assurde, come possiamo pensare di essere a nostra volta del tutto immuni – specie nelle “scienze umane”, come quelle nate attorno ai temi dell’educazione – dai condizionamenti e dai pregiudizi della nostra epoca, quelli che non vediamo perché ci siamo dentro? Nessuno dovrebbe dimenticare che ottant’anni fa anche uno stimato endocrinologo come Nicola Pende ha offerto una sponda “scientifica” alle idee razziste.

La storia ci aiuta a liberarci dell’illusione che i pregiudizi del nostro tempo, anche quelli che trovano senza troppe difficoltà le “evidenze empiriche” di cui hanno bisogno per confermare se stessi, siano la Verità; in qualche modo, ci aiuta a relativizzare il presente. Dev’essere per questo motivo che il potere ha sempre odiato la storia e ha sempre tentato di cancellarla o di porla strumentalmente al proprio servizio: relativizzare il presente significa poter mettere in discussione il potere dominante in un determinato momento e i suoi stessi presupposti, immancabilmente “scientifici” e fatti passare come indiscutibili e privi di alternative. A proposito, non dimentichiamo che le “riforme” dell’istruzione degli ultimi trent’anni hanno avuto come scopo dichiarato il superamento dell’ “impianto storicistico” della scuola italiana.

VIII
La motivazione al lavoro scolastico degli studenti si fonda su un difficile equilibrio tra l’interesse e la curiosità per ciò che si scopre, la soddisfazione per i risultati che si ottengono, il piacere della relazione educativa, la richiesta anche ferma di impegno da parte degli adulti, spesso indispensabile per spingere gli studenti ad andare oltre la barriera dell’inerzia che ognuno di noi si trova di fronte ogni volta che deve cominciare qualcosa di nuovo e difficile o deve affrontare ciò che non conosce. È un equilibrio che l’insegnante cerca ogni giorno di trovare insieme alle classi e con ogni singolo studente, per quanto lo permetta il sovraffollamento delle classi.

Non credo che chi sa soltanto spingere ossessivamente verso l’abolizione dei voti sia davvero interessato a questo delicato processo.

IX

Da dove è arrivata l’idea del “dirigente scolastico innovatore?” Il dirigente dovrebbe gestire una scuola, non “innovare”; sono gli insegnanti che innovano, nel senso che propongono le conoscenze in modo sempre diverso a seconda della situazione educativa, della rielaborazione richiesta in un determinato momento e delle persone in carne e ossa a cui insegnano, in una complessità, un adattamento dei mezzi ai fini, in un circolo virtuoso conoscenza-relazione che solo chi insegna può conoscere (da qui la centralità del collegio docenti come luogo di confronto delle esperienze, tutta da recuperare rispetto a decisioni che non hanno nulla a che fare con la realtà della scuola, calate dall’alto con il paradossale pretesto dell’ “autonomia”) e solo chi è in classe può portare avanti.

E poi…

Riempire a forza le scuole di spazzatura digitale, scindere formalisticamente le metodologie – con il bollino-spot “innovative” – dai contenuti reali e dal desiderio di sapere, ridurre l’insegnamento ad adempimento burocratico astratto, con la retorica demente delle “competenze” e oggi con i sedicenti “orientamento”, pcto, “educazione civica”: tutto questo ostacola la relazione educativa e il lavoro sulle conoscenze e fa sprofondare la scuola in una crisi i cui stessi fattori continuano a essere proposti in modo perverso come rimedi.

Una conoscenza artificiale?

L’Intelligenza Artificiale, in sé, potrebbe non essere un problema ma uno strumento utile e divertente. Il problema sta in un’idea preesistente all’AI, e che attraverso l’AI viene portata ulteriormente avanti: quella cioè per cui la conoscenza non è ciò che sta dentro l’essere umano ma ciò che sta fuori.

L’idea l’ha sintetizzata bene, in modo esplicito e piuttosto sconcertante, l’ex ministro Bianchi, quando ha detto che la scuola non deve dare più conoscenze perché tanto “ormai c’è internet” e le conoscenze (anzi, le “informazioni”) sono lì a nostra disposizione.

Ecco, il punto è proprio questo: scambiare il dentro con il fuori, ignorare che le conoscenze possono strutturarsi e diventare un mondo solo all’interno degli individui – con una stratificazione nel tempo di innumerevoli nozioni, idee, pensieri, relazioni, esperienze, emozioni, affetti, immagini, fantasie, che si collegano tra loro in modo imprevedibile e danno vita a configurazioni mentali sempre nuove, corrispondenti alla storia di ciascuno – ha delle conseguenze micidiali in campo educativo.

Avere chiaro che a contare e a essere fecondo per il futuro è ciò che l’essere umano sa, pensa e ha dentro di sé, porterà infatti gli insegnanti a curare l’arricchimento e la crescita umana e culturale dei propri studenti, a proporre un confronto continuo con il mondo del sapere e con storie, scoperte, pensieri, punti di vista sul mondo, a propiziare la conoscenza della realtà e di se stessi attraverso l’approccio a contenuti culturali significativi, anche nella loro dimensione sociale e storica. Se invece si pensa che le conoscenze siano fuori, fino addirittura ad auto-organizzarsi attraverso l’AI, divenendo in realtà rapporti matematici e forme prive di sostanza conoscitiva e affettiva, l’essere umano può anche rimanere vuoto e passivo (gli “hollow men” di eliotiana memoria?) e l’educazione può puntare a far sviluppare “competenze” minime di adattamento a una realtà data, che non è più nemmeno necessario conoscere.

II tempo per imparare: corsivo, elementari e primaria

di Marco Cerase

Nel suo bellissimo e intelligentemente ironico articolo pubblicato su blog “La Nostra Scuola”, Silvia Contangelo affronta il problema della marginalizzazione del corsivo nella scuola elementare, nel filone delle recenti e purtroppo ancora minoritarie prese di posizione e ricerche scientifiche che ne rivalutano l’importanza.

In particolare l’articolo mette in evidenza come questa marginalizzazione abbia di fatto soffocato un ricco corpus di pratiche didattiche messe in atto per decenni, con successo, dalle insegnanti e dagli insegnanti di quella scuola elementare che, come indicava il suo vecchio nome, aveva lo scopo per fornire agli alunni gli “elementi” di conoscenza basilari per la loro cittadinanza e per il proseguimento degli studi.

Le nuove prassi didattiche della attuale scuola primaria sembrano invece costituire un impoverimento rispetto alle vecchie, all’interno di un cambiamento di paradigma che ha origine nell’evoluzione tecnologica e nel suo carattere totalizzante. Le tecnologie, da sempre, portano a una semplificazione dei vari aspetti della vita; negli ultimi cinquant’anni il loro sviluppo esponenziale si è riverberato nel settore educativo, senza che questo avesse il tempo di metabolizzare la nuova situazione ed adeguarsi, al di là di una fideistica e acritica adesione che, ad esempio, ha portato alla sostituzione delle lavagne di ardesia prima con le ingombranti LIM e poi con i nuovi “tablettoni”, cioè i monitor touch-screen, totem della presunta inattualità, se non impossibilità, di un apprendimento che non sia digitalmente mediato.

La dipendenza dalle tecnologie ha portato a una crescente e dogmatica insofferenza nei confronti della complessità, dell’intermediazione, dello sforzo e degli “attriti” caratteristici di tutte le pratiche, comprese quelle sociali, relazionali e pubbliche, che hanno avuto origine in epoca anteriore a quella digitale, illudendoci che la soddisfazione di ogni nostro bisogno sia a portata di click. Per “attriti” intendo tutte quelle resistenze che incontra una persona, o anche un sistema, che deve adattarsi all’ambiente, che ancorano lo sforzo a qualcosa di concreto e sui quali si basa anche la soddisfazione per il superamento: banalmente ricordo che, senza attriti, sarebbe impossibile anche il semplice camminare.

Tale insofferenza si è riverberata anche nella scuola primaria, proprio in un periodo dello sviluppo in cui invece sarebbe necessaria una maggiore interconnessione, anche neuronale, che si acquista solo tramite l’esercizio paziente e ripetuto, tramite lo sforzo, in definitiva tramite gli attriti: il corsivo è stato tra i primi apprendimenti a farne le spese, giudicato “vetusto”, troppo difficile, un’inutile perdita di tempo, poco inclusivo e addirittura d’intralcio per gli apprendimenti, in una contrapposizione tra la pazienza necessaria al suo insegnamento/apprendimento e la eterna frenesia di approdare a i nuovi argomenti previsti dalla programmazione didattica.

Non si può non essere d’accordo con la sagace autrice dell’articolo sul fatto che una certa pedagogia ufficiale e totalitaria sulle metodologie di insegnamento innovative, inclusive e tecnologiche abbia spazzato via un patrimonio di pratiche, specie alla primaria, che non è stato né preso in considerazione né adeguatamente sostituito.

La vittoria dell’ortodossia delle “corrette pratiche” sulla presunta barbarie di quelle precedenti, tra cui il corsivo, ha portato a dare per scontata o generalizzata una presunta incapacità dei seienni di apprendere contemporaneamente i quattro stili di scrittura: la classica profezia che si autoavvera, come giustamente nota l’autrice, e che secondo molti ha portato un impoverimento, questo sì generalizzato, delle capacità non solo grafiche, ma anche cognitive, di un’intera generazione.

Inoltre, dal 2012 la scuola primaria deve fare i conti con delle indicazioni nazionali elefantiache che hanno moltiplicato traguardi e obiettivi, frammentando conoscenze, competenze e abilità in un pot-pourri privo di gerarchie, che non tiene conto dei ritmi di apprendimento dei bambini e neanche di quali siano le cose che a loro serve davvero imparare, per poi poterne imparare di più complesse. Le maestre e i maestri di oggi, privati dal necessario travaso di esperienze da parte dei colleghi più anziani (non adeguatamente sostituito dai corsi universitari di SFP), spesso non riescono a star dietro a questo lunghissimo elenco di cose da fare e non trovano il tempo e l’energia per portare tutti gli alunni ad un’effettiva padronanza delle conoscenze che consentano loro di affrontare con profitto le attività successive, a partire dal corsivo per continuare con tutte quelle vecchie e aborrite pratiche come le tabelline, il dettato, il riassunto, le poesie, le filastrocche mnemoniche e così via.

Qualcuno che avrà avuto la pazienza di leggere tutto l’intervento penserà che io sia dell’idea che basti ritornare alla scuola di cinquant’anni fa per sistemare tutto. Non è così, perché il contesto culturale, economico, sociale, politico, tecnologico è profondamente cambiato. Non si può però non osservare come quella parte positiva delle pratiche tradizionali dell’insegnamento, come il corsivo, che comporta il rispetto dei tempi ottenuti attraverso una individualizzazione non solo formale degli insegnamenti, siano state spazzate via, senza adeguata riflessione né adeguata sostituzione.

***

Nota: l’articolo cui qui si fa riferimento è

Il voto e la responsabilità degli insegnanti

Durante un incontro del gruppo psicologico della nostra associazione con il dottor Alessandro Zammarelli*, è emersa l’idea che la battaglia per l’abolizione dei voti, portata avanti soprattutto dall’esterno della scuola, si agganci a una questione che effettivamente esiste e di cui molti tra noi insegnanti soffrono. Si potrebbe sintetizzare così: come faccio a essere l’adulto che entra in una relazione anche affettiva con gli studenti, che li ascolta, che si offre come punto di riferimento, che scherza con loro e chiede loro di fidarsi e di affidarsi, e contemporaneamente a pormi nella posizione giudicante di chi valuta la qualità del loro lavoro e della loro preparazione? La questione, ogni persona di buon senso lo capisce da sé, non cambia affatto se i voti anziché in itinere vengono assegnati soltanto a fine percorso: anzi, l’assegnazione di un unico voto finale, separando ancora di più la relazione educativa quotidiana dalla valutazione quantitativa, scinde ulteriormente la figura dell’insegnante da quella del valutatore inappellabile, che si manifesta improvvisamente solo quando non è più possibile cambiare le cose.

Di fronte a una difficoltà che esiste, la soluzione semplicistica, che come ogni semplificazione trascura innumerevoli conseguenze dei propri assunti, è quella dell’ “allora aboliamo i voti”, magari sostituendoli con la cosiddetta certificazione delle competenze (su cui qui direi solo che si tratta di una forma di valutazione molto piu intrusiva del voto, visto che – entrando abusivamente anche in questioni di personalità – corrisponde a una schedatura rigida di esseri umani in piena formazione ed evoluzione). Inutile aggungere che evitare agli insegnanti la fatica emotiva e la responsabilità di assegnare voti non evita agli studenti il fatto di essere comunque valutati numericamente o per “livelli” da soggetti esterni alla scuola (oggi INVALSI e domani, chissà, magari i rappresentanti delle aziende all’interno degli ITS).

Probabilmente la strada da seguire per superare l’apparente dualismo relazione/valutazione è un’altra: ribadire qual è l’autentica funzione del voto, la restituzione cioè agli studenti di un’indicazione chiara sul lavoro svolto e su quello da svolgere, a riempire di senso una valutazione numerica o comunque sintetica necessaria al mantenimento del valore legale del titolo di studio. Perché vi sia una sensatezza del voto, e perché l’insegnante non diventi o non si senta un “giudice”, è fondamentale – come il dottor Zammarelli ha ricordato più volte – che chi lo riceve possa comprenderne le motivazioni; il che significa che non può esistere un voto utile che non sia accompagnato da una spiegazione personalizzata, all’interno della relazione educativa.

È in questo modo che affetto e valutazione da parte dell’insegnante possono coincidere: dire a uno studente, con il dovuto tatto pedagogico e l’indispensabile gradualità ma anche con chiarezza, “guarda che questa cosa non la sai (oppure la sai molto bene), la devi imparare”, “guarda che ti devi impegnare di più” ecc., può significare volergli bene, volere il suo bene; ed è anche una forma di rispetto e di fiducia nel fatto che possa e debba sapere come stanno le cose, senza fanatismi docimologici (nel “calcolo” del voto dovrebbero essere compresi la delicatezza dovuta all’età e l’incoraggiamento) ma anche senza infingimenti sull’effettiva preparazione. È una continua ricerca dell’equilibrio tra comprensione e chiarezza nelle richieste, che tenga conto di ciò che lo studente può o non può dare; e infatti l’insegnamento è un’arte difficile, che tiene insieme molte cose e a cui non giovano per nulla le ricette semplicistiche.

*Gli incontri con il dottor Zammarelli, psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista SIPre (Società Italiana di Psicoanalisi relazionale) hanno come obiettivo l’integrazione tra insegnamento e psicologia dell’età evolutiva e avvengono attraverso la discussione di casi o di tematiche particolarmente significative riguardanti l’esperienza scolastica e i vissuti di studenti e insegnanti

Sul corsivo

di Silvia Contangelo

Leggo con interesse un bell’articolo di Marco Belpoliti, apparso sul quotidiano “La Repubblica” il 10 febbraio 2024. Parla di un argomento singolare, decisamente minore, che stavolta trova spazio su un grande quotidiano nazionale, portando all’attenzione qualcosa che interessa gli addetti ai lavori e le famiglie con bambini e ragazzi in età scolare: il corsivo.

Un aspetto della pratica scolastica che può essere passato inosservato ai più, come l’abbandono della scrittura in corsivo,  spinge a una riflessione più generale sul mancato sviluppo delle abilità manuali nei più piccoli e Belpoliti cita personaggi della cultura che attribuiscono alla scrittura in corsivo lo sviluppo armonico di attività manuali e intellettuali, anche senza scomodare le neuroscienze, che già da un po’ hanno evidenziato come il movimento della mano esercitato dall’apprendimento della scrittura in corsivo crei un’importante connessione visivo motoria che attiva zone della corteccia cerebrale  preposte allo sviluppo del linguaggio, all’orientamento spaziale, alla capacità di calcolo e all’implementazione della memoria. Non manca il consueto cenno, quando si discute dell’argomento, alle scuole dove vivono i capoccioni della Silicon Valley, che mica danno il tablet in mano ai propri figli! Eh no! I rampolli dei capiscioni che dominano l’universo digitale da oltre oceano, stanno lì con l’umile matita tra le mani e, nelle scuole rigorosamente steineriane in cui sono iscritti, non vedono l’ombra di una tastiera!

Insomma, indietro tutta. E noi italici che da almeno un quindicennio facciamo di tutto per eradicare dalle scuole la malapianta del corsivo, più robusta del previsto, e mettiamo in mano ai lattanti cellulari e tablet insieme al biberon, che “…tieni a mamma, così sì che diventi intelligente!” e oltre a tacitare il perfido infante mentre facciamo la spesa, ci sentiamo così moderni? Noi insegnanti che abbiamo inneggiato ai finnici scolari, modello di quel riuscito connubio tra fancazzismo e genialità realizzato a base di ore smozzicate, gioco all’aperto a 5 gradi sotto zero e videoscrittura e seguiamo corsi di 40 ore per imparare a usare programmi che farebbero ridere un quattrenne? Ci ritroviamo con le pive nel sacco, presi a sberle da una controtendenza che ci trova impreparati rispetto a tutto quello che abbiamo studiato e ci è stato ripetuto come un mantra fino a ieri.

L’articolo di Belpoliti, insomma, va ad aggiungersi a tutte quelle riflessioni che finalmente stanno ripensando all’importanza dell’apprendimento del corsivo. Fa uscire il dibattito dalle aule scolastiche e lo porta all’attenzione dell’opinione pubblica.

Bene.

Ma…si fa presto a dire “corsivo”.

Mentre infuriava la polemica e si esaltava la scrittura digitale, il tempo è inesorabilmente passato. Nell’accapigliarsi pedagogico e didattico furibondo degli ultimi dieci/quindici anni, non ci si è forse accorti che qualcosa è accaduto. Qualcosa di serio e non facilmente rimediabile: si è persa per strada la metodologia. È  andata via, evaporata insieme alle care colleghe che ci hanno lasciato alle prese con lim e schermi interattivi e oggi ci inviano le foto con i nipotini sotto l’albero o i saluti dal Marocco o dalle Canarie con i mariti in cappellino e marsupio, mentre finalmente riescono a godersi, con gli spiccetti della liquidazione, quei viaggetti fuori stagione che i ritmi scolastici hanno impedito per circa un quarantennio e di scuola non vogliono sentir parlare neanche per sbaglio! Quei deliziosi personaggi in prendisole sono depositari, ormai inservibili, dei segreti del corsivo. Eh sì, il corsivo è come l’uncinetto, si può imparare da un libro, da un corso, da un video, ma si rimarrà a un livello basico. Si sbaglierà, si svilupperà una tecnica inadeguata e approssimativa, che non ci permetterà mai di eseguire la complessa architettura di una coperta per il corredo. Ma io, si dirà, ho la laurea in scienze della formazione primaria, il master in didattica dell’italiano e quello di secondo livello in rieducazione del gesto grafico! E che ci vuole a indottrinare questi seienni recalcitranti? Eh, invece qui casca l’asino. Anzi, più è stato lungo il percorso, meno si riuscirà ad ottenere dei risultati soddisfacenti.

Come è possibile? Intanto va detto che la didattica del corsivo ha la sua liturgia, che non è casuale e va rispettata in ogni passaggio. Certamente un tempo il rito nasceva alla vetusta scuola materna, dove gli infanti, ignari delle meraviglie dell’astronomia, della botanica o del coding, invece di essere investiti da una progettualità insensata e delirante, venivano messi seduti tranquilli nei banchetti e invitati a impugnare correttamente una matita,  a seguire delle linee pre-tracciate, a colorare entro i bordi un disegno, a punteggiare una sagoma, a ritagliare, infilare perline in un filo o chiodini su una tavoletta forata, manipolare pongo e plastilina e incollare figure.

Quindi sviluppavano quella motricità fine indispensabile per gli apprendimenti scolastici, cui si aggiungeva il lavoro di nonne e mamme, che permettevano che i piccoli trafficassero con farina e acqua intorno alla spianatoia, che si facevano aiutare a stendere strofinacci che andavano appesi “dritti dritti” con le mollette al filo, che davano in mano un ago (aiuto!) a nanerottoli alti meno di un metro, millantando semi cecità e chiedendo che quel filo dispettoso venisse infilato nell’apposita cruna, per attaccare il bottone al grembiulino.

Ora le nonne sono impegnate con la nail art e le maestre della scuola dell’infanzia studiano piani per erigere serre nel giardino scolastico e per tutte queste attività di sviluppo della motricità fine, propedeutiche alla scrittura, non c’è certamente tempo.

Così i piccoli arrivano alla scuola primaria con la manualità di un bradipo e in fretta si cerca di recuperare quella scioltezza che dovrebbe avvicinare alla complessità del gesto grafico, richiesta per imparare il corsivo.

A questo punto entra in gioco la padronanza della didattica della scrittura di cui poche insegnanti ancora sono custodi.

Il lavoro è lunghissimo, sistematico e meticoloso. Ogni maestra sa che perderà quei due o tre chili tra settembre e dicembre della prima, che non starà mai seduta, che tornerà a casa con i piedi doloranti, perché è un addestramento da caserma. Si comincia dal tracciare forme sulla carta sempre più sinuose e tondeggianti, ripetendo il ritmo più e più volte. Il lavoro delle forme inizia sul quadretto grande, da un centimetro, per passare, dopo qualche tempo, al quadretto piccolo, dove i bambini devono abituarsi a “vedere” il piccolo quadretto da mezzo centimetro, che sarà la trama dove la matita andrà a tracciare le prime letterine, le “a” e le “o” che dovranno entrare precise precise in quel piccolo quadrettino insidioso, le cui linee sottilissime sfuggono alla vista.

Per far sì che i bambini capiscano ciò che ci si aspetta, il lavoro è rigorosamente individualizzato. I piccoli non sanno che il quaderno ha un inizio e non si può scrivere in mezzo, sulla quinta pagina a caso o sull’ultima, non sanno che ha un verso e non possiamo accorgerci alla fine della giornata che abbiamo svolto l’attività al contrario. Non sanno che si inizia un lavoro partendo da sinistra e procedendo verso destra, non sanno che cerchietti, triangolini, quadrettini o letterine devono seguire un andamento orizzontale e non fluttuare nella pagina a piacimento come onde imbizzarrite! Quindi la maestra, con la pazienza e la calma di gesti antichi e consolidati dal tempo, segna sui quaderni la complessa architettura di puntini a matita che guiderà ogni bambino nel lavoro. Scrivere le letterine alla lavagna e pensare che gli alunni possano ricopiare con precisione quanto vedono, è illusione pura.

Dove scrivere? Per far scrivere un piccolo bambino, ci vuole un piccolo quadernino! La moda dei quadernoni ha preso piede da decenni, ma avviare il lavoro su uno supporto di piccole dimensioni, facilita e rassicura.

Che strumento per scrivere? Pochi pensano all’importanza di uno strumento che faciliti il lavoro, che si possa impugnare agevolmente anche da parte di un bambino piccolo e che tracci linee scure ben visibili. Una matita sfaccettata nell’impugnatura che si lasci stringere senza sgusciare via e dal tratto morbido, 2 o anche 3B, renderà tutto più agevole.

Da qui in poi saranno mesi e mesi di puro, semplice, antico e vituperato “copiato”. Ebbene sì. La cruda verità è questa. Il corsivo si impara e si perfeziona esclusivamente copiando. Non proponendo sezioni di scrittura creativa, non incentivando i piccoli autori in erba ad esprimere tutto il loro fantasioso estro… ma copiando! Prima singole letterine, poi parole di due o tre sillabe, poi brevi frasi, infine interi brani dove siano ben presenti le difficili maiuscole. Copiando, pensate, i bambini perfezionano anche la lettura!

Quando, però, sembra che il lavoro sia impostato, i piccoli apprendisti amanuensi sono stati domati, imbrigliati e convinti che sì, le paginette di “ape” e “mamma” vanno terminate fino alla fine, proprio dove la maestra ha messo i puntini e nessuna invocazione servirà ad evitare l’implacabile esercizio e pare che tutto stia filando per il meglio, ecco che entrano in gioco le sirene medico-pedagogiche, che fischiano a tutto spiano alla vista della presentazione dei quattro caratteri contemporaneamente, magari dopo poche settimane di scuola. Sacrilegio! Legioni di logopedisti, neuropsicomotricisti, psicologi e simili schierati a coorte scatenano l’inferno e si avventano crudelmente contro le ignare maestre attempate, ree di proporre il corsivo in prima!

Cosa fate?? Il corsivo deve rimanere occultato, non si può diffondere così tra i piccoli scolaretti che si accostano appena alla conoscenza, forse in seconda, forse in terza, potranno aspirare a tracciare le prime vocali!

In quinta, chissà, qualcuno straordinariamente dotato potrà, con incredibile maestria, nemmeno dovesse estrarre Excalibur dalla roccia, riuscire a tracciare un “f” o addirittura una “g” maiuscola! E lì verrà portato in trionfo! Ma in prima non esiste, le scolaresche vanno rigorosamente tenute a bagnomaria scrivendo esclusivamente in stampato maiuscolo!

Le insegnanti più giovani, mai state in contatto con le maestre di lungo corso, non conoscono la tecnica per l’insegnamento del corsivo. Sanno solo, dogmaticamente, che non va assolutamente presentato in prima e che, anzi, la presentazione del carattere deve essere procrastinata il più possibile. Non sanno quale sia il supporto cartaceo più idoneo su cui far lavorare gli alunni, né quali siano gli strumenti necessari, non conoscono i tempi, né la gestione del lavoro nel corso delle sessioni dedicate all’attività.

Non si pensa che lavorando in modo così confuso la già poco fluida padronanza del gesto grafico che i bambini possiedono, non verrà mai migliorata dalla lunga applicazione nell’esercizio costante del corsivo e che l’imprinting promosso con l’insegnamento dello stampato, difficilmente verrà scardinato. Un insegnamento tardivo del carattere, non solo intralcia il resto del lavoro da svolgere (in seconda, in terza è l’ora di lavorare sulle difficoltà ortografiche, sulla grammatica, non certo di impegnare il tempo scuola con l’esercizio sul corsivo), ma non verrà mai accettato dai bambini come strumento primario dell’espressione del pensiero scritto. Quando il bambino scrive in stampato da anni, non coglie alcun vantaggio nella complessa e faticosa scrittura in corsivo e ne rifiuterà sempre l’uso, cercando di tornare al confortevole e familiare stampato appena possibile.

Quindi, tornare al corsivo come?

Mentre il nord Europa ha, sembrerebbe, terminato di cavalcare l’onda lunga della deriva tecno pedagogica e rimugina sul recupero degli apprendimenti frettolosamente buttati in soffitta, da noi è ancora pieno delirio fuffo-tecnologico, aggravato da tutte le risibili teorie sulla fantomatica inclusività della scrittura in stampato maiuscolo, senz’altro da preferire. Così, nella perniciosa e surreale ossessione inclusiva che permea la scuola italiana, si dimentica il diritto a proporre il percorso ad alunni perfettamente in grado di impegnarsi nella sfida dell’apprendimento del carattere corsivo e forse si dovrà assistere a probabili schiere di diciottenni che firmeranno in stampatello, per dirottare finalmente  i sedicenti esperti che oggi dominano la didattica della scuola primaria, verso l’apertura di chioschi su spiagge tropicali e correre ai ripari recuperando tecniche impolverate eppure sempre efficaci, prima che le ultime maestre custodi della competenza necessaria, vadano in pensione.

Cannibalismo culturale. Quando alcuni pedagogisti sedicenti democratici si appropriano dei giganti del passato

di Maurizio Di Bella, Luca Malgioglio

Nella confusione del panorama educativo contemporaneo, ci troviamo spesso di fronte a una pratica estremamente discutibile: il cannibalismo culturale. Si tratta di un fenomeno per cui influencer a vario titolo chiamati a esprimersi sulla scuola – pedagogisti pseudo-progressisti, cantanti, manager, fattucchiere, ciarlatani – si appropriano di grandi figure di educatori del passato, come Montessori, Manzi, Milani, e ne riducono il pensiero complesso a una mera parodia dei loro ideali manipolandone le voci potenti e silenziose.

Maria Montessori, Don Lorenzo Milani, Alberto Manzi: giganti del pensiero educativo del loro tempo, ancor oggi attuali, che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’istruzione italiana e non soltanto italiana. La distorta reinterpretazione odierna dei loro insegnamenti avviene per lo più senza alcun riferimento al contesto storico in cui sono stati formulati e che naturalmente ne ha guidato l’istinto pedagogico; lo scopo è sempre quello di utilizzarne il pensiero per avallare l’ultima o penultima “riforma” ideata dai burocrati ministeriali, nell’ottica di un progressivo smantellamento per svuotamento dell’istruzione pubblica e del suo asservimento a interessi privati: l’esito opposto, a ben vedere, rispetto a quello verso cui tendevano i grandi innovatori che mai si sarebbero augurati di avere degli imitatori di scarsissimo livello culturale legati professionalmente ad associazioni e realtà padronali, che piegano qualunque discorso pedagogico a una precisa ideologia economicistica (ne è spia un linguaggio fatto di “competenze”, “crediti”, “debiti”, “livelli”, “capitale umano”…).

Basti pensare a come la volontà di Don Milani di utilizzare la cultura per permettere agli ultimissimi di partecipare attivamente alla vita politica e di contribuire a cambiare la realtà sia diventata, nell’ottica “riformista”, addestramento a poche competenze preferibilmente “non cognitive” necessarie a inserire degli utenti, dei consumatori e degli esecutori in un ingranaggio socio-economico che si presume dato e immodificabile.

Questa gravissima distorsione del grande patrimonio educativo del nostro Paese – che viene tecnicizzato, standardizzato e strumentalizzato con spericolati anacronismi per assecondare le peggiori tendenze del presente – rischia di produrre un’analoga distorsione nello sviluppo e nella crescita umana e culturale dei giovanissimi.

L’invito è quello a una riflessione critica sul modo in cui le figure del passato vengono trattate e reinterpretate nel presente; una riflessione che torni alle radici del pensiero educativo e tuteli il futuro delle nuove generazioni.

La cattedra regressiva



di Davide Viero [1]

In data 25/01/2024 è stata presentata una proposta di legge da parte dei seguenti promotori: Dario Ianes, Evelina Chiocca, Paolo Fasce, Fernanda Fazio, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Nicola Striano. Tale proposta di legge verte sul fatto che i docenti curricolari dovranno svolgere obbligatoriamente alcune ore del loro orario su posto di sostegno e i docenti di sostegno dovranno dedicare delle ore all’insegnamento nella classe anche in attività extracurricolari (quali? Di che tipo? Didattiche o burocratiche?). A questa nuova cattedra è stato dato il nome di cattedra inclusiva.

La motivazione, secondo i promotori, è che così si accresce l’inclusione dei ragazzi certificati, che sovente sono esclusi dalle dinamiche gruppali.

Tale proposta fa di tutta un’erba un fascio, dato che passa sopra alle enormi peculiarità e differenze che caratterizzano e distinguono i vari gradi di scuola, che sarebbero necessariamente da considerare. Infatti più i gradi sono alti e maggiore è l’impianto disciplinare; non così per i gradi più bassi (scuole dell’infanzia e primaria).

Cercherò qui di mostrare che la portata di una simile proposta è davvero rivoluzionaria, ma non nel senso attribuitole dai promotori, perché la realtà è già perfettamente identica a quello che dicono di voler ottenere con la proposta di legge (da qui PDL). Infatti nella scuola, da più di quarant’anni, l’insegnante di sostegno è assegnato alla classe e non al singolo studente certificato. Quindi l’insegnante di sostegno è a tutti gli effetti della classe e non dell’alunno certificato, risultando così per tutti una risorsa in più.

Ma veniamo alla portata rivoluzionaria, forse inconsapevole, della PDL: una rivoluzione che si gioca su di un altro livello, che qui tenterò di tratteggiare per coglierne la portata regressiva sul piano umano, culturale e dal punto di vista antropologico. Cercherò di dimostrarlo attraverso un processo comparativo di diversi nuclei caratterizzanti la scuola, messi a confronto attraverso la L. 104/92 e la PDL. Essi sono:


La persona
[2]

La L. 104/92
considera il concetto di alunno come un di più maggiorativo rispetto all’essere persona. Infatti ogni alunno è una persona che va a scuola per imparare ed elevarsi. Tale concetto è intrinseco e sotteso a quello di alunno. L’essere alunno viene utilizzato per elevare la persona sottostante. Ogni insegnante sotto l’alunno deve scorgere la persona, ma agire sull’alunno per compierla, secondo la peculiarità di questa istituzione.

La riduzione dell’alunno alla persona secondo la PDL
. Questa riduzione avviene perché in essa non è considerato l’alunno che deve apprendere elementi considerati fondamentali per esercitare la propria personalità nel mondo, bensì viene considerata solamente la persona, l’individuo. I promotori parlano infatti di inclusione dell’alunno certificato senza mai fare riferimento all’apprendimento se non in modo secondario. Cosa che era sottesa alla L. 104/92. È chiaro che se poi le certificazioni avvengono sulla scorta dell’ICF, la persona è considerata un ammasso di funzioni che la rende più vicina ad una macchina che a un essere umano, che è ben di più della somma delle sue funzioni. L’ICF comporta anche un risultato paradossale, perché se l’individuo è schiacciato sul suo funzionamento, egli non potrà che coincidere con la sua disabilità, nonostante si affermi il contrario. 


Il sapere


Con la 104/92 esso è un elemento fondamentale in relazione al soggetto, disabile o no che sia. Gli insegnanti di classe (e con questa locuzione intendo anche quelli di sostegno che sono di classe) hanno il compito di accrescere la capacità di insegnare e di apprendere da parte di tutti gli alunni. Il sapere infatti è qualcosa di democratico che va insegnato a tutti senza distinzione, come afferma l’art. 3 della Costituzione italiana, oltre ad essere un elemento che caratterizza l’uomo: “fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza”.

La riduzione del sapere con la PDL: con tale proposta, il sapere non viene quasi mai nominato, perché secondario rispetto alla socializzazione, che diviene il vero compito della scuola (da qui il concetto di inclusione). In un trionfo del comportamentismo sull’approccio culturale/umanistico.


L’insegnante

Con la L. 104/92
gli insegnanti sono una figura fondamentale della triade formata assieme a studenti e sapere. In questo senso gli insegnanti accendono le personalità degli studenti attraverso la cultura ed il sapere. 


Con la PDL
tali insegnanti diventano meri agenti di socializzazione, senza fondare questa socializzazione su alcunché, essendo l’inclusione fine a se stessa o quasi.


La relazione

Dalla L. 104/92
si evince la centralità della relazione tra insegnanti e studenti. Senza relazione umana non c’è mai trasformazione soggettiva se non casualmente. Avere un insegnante che, attraverso la stabilità di una relazione, insegna, è fondamentale per l’apprendimento/perfezionamento di sé.

La riduzione della relazione con la PDL
: essa accresce il numero di figure che interverranno nella classe, magari con una disciplina insegnata da due docenti e con innumerevoli stili di insegnamento. Senza contare che in molti studenti con disabilità la relazione è l’aspetto fondamentale. Avere una ridda di docenti che si alternano può essere confusivo e portare anche a forti disagi in chi è più debole. A chi si guarda con questa PDL? Siamo sicuri che con questa PDL si guardi al bene dello studente in difficoltà, imponendo modi di agire universali e prescrittivi?


L’uguaglianza

Con la L. 104/92
si presuppone l’uguaglianza di tutti gli studenti all’interno della classe. La quale è un di più rispetto alla somma delle parti che la compongono.

Con la PDL l’uguaglianza viene ridotta all’inclusione, ovvero alla considerazione solo del singolo individuo. Come non ricordare qui il tatcheriano “la società non esiste, esistono singoli individui” che funzionano ognuno a modo suo?

La scuola dovrebbe essere un momento che unisce attraverso l’accrescimento nella condivisione di un patrimonio comune. Ecco l’essere compagni di classe, il condividere il pane, nell’accezione etimologica del termine.

Risulta chiaro che la PDL frammenta e smembra la classe, riducendola a un aggregato di individui. E ciò è conforme al mercato, ne riproduce il funzionamento e le leggi.

È questo il piano su cui va letta la PDL. Ed hanno ragione i promotori a dire, nel comunicato stampa, che questa proposta rappresenta un cambio culturale che non si limita al sostegno. Essa è davvero una rivoluzione culturale che uniforma tutta la scuola al paradigma del mercato. Una volta frantumata la classe in elementi isolati, tutti devono poter essere inclusi nel sistema di scambi che regola questo aggregato. Un aggregato che non ha alcuna teleologia aperta, sostituita da un’autoregolazione (in vincolo di risorse) del mercato -in questo caso rappresentato dalle relazioni tra individui- attraverso le quali verrà estratto il valore dal capitale umano che ciascuno è. Il tutto in base alle circostanze e al paradigma utilitarista. Paradigma che conferma il mondo dato e, contrariamente agli annunci, accresce le disuguaglianze e perciò l’esclusione, visto che prevede l’accaparramento di risorse limitate e non per tutti.

Senza contare che la PDL favorisce la burocratizzazione, attraverso un “coordinamento pedagogico sia a livello di scuola che di ambito territoriale”: prevede cioè funzioni e figure che non sono a contatto con gli studenti ma siedono in uffici e mirano, secondo il paradigma del New public management – ovvero la gestione del pubblico secondo i criteri del privato – al controllo dei processi di produzione tipici di altri settori. Ricordo che i docenti sono trasformativi della realtà solo se sono in classe a lavorare con gli alunni, non se sono distaccati a coprire funzioni amministrative e di coordinamento. È in classe la vera sostanza, la vera opera, non nei corridoi e negli uffici. Gli insegnanti insegnino.

La PDL propone infine un costo di 900 milioni di mercato della formazione per plasmare i docenti a quanto voluto dalla stessa riforma attraverso un bisogno indotto. Ciò soddisfa gli appetiti di molti, comprese le case editrici specializzate, ma la cosa più grave è questa trasformazione della scuola, che rende sempre possibile il moltiplicarsi degli appetiti economici e delle possibilità di profitto (come per altro già avviene con l’acquisto di tecnologie proprietarie, strumentazioni digitali oltre ogni ragionevole uso, ambienti e arredi), anche per piccole cifre. E questo ne cambia la natura.

Abbiamo bisogno di tutto ciò? Dov’è l’uomo in tutto questo?

La scuola deve estrarre valore dal capitale umano incarnato dagli individui, oppure dovrebbe essere un’istituzione che dona prospettive altre di trasformazione di sé e del mondo?

Ulteriori considerazioni
Chi a scuola ci lavora, sa quanto sia vituperata la disabilità. Ma non dalla scuola, bensì dalla Sanità pubblica. Tempi biblici per le certificazioni, che a volte fanno perdere mesi di insegnanti aggiuntivi per la classe; percorsi di cura e riabilitazione quasi impossibili e di facciata, mai incisivi perché sporadici; rotazione del personale a causa di contratti brevi e lavori a progetto, il che impedisce l’instaurarsi della relazione tra paziente e specialista, che è fondamentale per un percorso positivo; e ancora, concentrazione dei poli sanitari in pochi centri lontani dalle periferie per ragioni di spesa, con impossibilità e disagi per ragazzi già in seria difficoltà e con famiglie costrette a spostarsi per chilometri o a rinunciare alle cure; impossibilità dell’accesso a cure gratuite e dunque esclusione per chi non può permettersi il pagamento di centri privati; la riduzione del servizio sanitario per la disabilità a un mero procedimento burocratico/certificativo, senza possibilità di cura e riabilitazioni degne di questo nome; la totale assenza dei Servizi ULSS in sede GLO (il nuovo PEI rende legali queste assenze, dato che è valido anche se redatto dalla sola scuola) e nell’accompagnamento degli insegnanti nel loro lavoro con alunni diversamente bisognosi. Nella scuola, le uniche criticità che si riscontrano sono le difficoltà o i dinieghi nel supplire – per mancanza di fondi da parte delle scuole – i docenti di sostegno ammalati, con gravi disagi di tutti gli alunni della classe; i ritardi a inizio anno nella nomina degli insegnanti di sostegno e alcune zone d’ombra nell’assegnazione alle scuole delle cattedre di sostegno in relazione alle ore richieste in sede GLO.

Oggi si riscontra la netta separazione dell’ambito sanitario da quello sociale e si vorrebbe far rientrare la disabilità nel solo ambito sociale rinunciando al primo, in quanto ritenuto stigmatizzante, come ci dicono il Capability approach, l’Index per l’inclusione[3] e la stessa PDL. Le cose invece cambieranno solo quando l’aspetto sociale si compenetrerà a quello medico, secondo lo spirito della 104/92. Se infatti mi mancano le braccia, avrò il mio bel da fare a legarmi le scarpe, così come nell’abbracciare. Il sociale non può esistere senza un corpo (senza scomodare Husserl e tutta la fenomenologia) e smascherare l’impostura di un lassez-faire a livello sociale – praticato solo perché costa meno a uno Stato imperniato su certi modelli economici, oltre ad essere confermativo dello status quo, nonostante la retorica affermi il contrario – è ormai un imperativo per chi si è emancipato.


C’è bisogno di un cambio di rotta, sì. Ma non quello prospettato dalla PDL. Speriamo che i promotori se ne accorgano.

Note

1. Insegnante di sostegno di ruolo e per scelta da 13 anni.

2. Uso qui questo termine per convenzione, dato che la pedagogia maggioritaria in Italia è stata sempre a trazione cristiana.

3. T. Booth, M. Ainscow, Nuovo Index per l’inclusione, Carocci, Milano, 2014.


Un’analisi delle Linee guida STEM

di Davide Viero

Il presente scritto prende in analisi il testo delle Linee guida STEM, emanate con il DM 184 del 15/09/2023. Esse sono funzionali, recita il medesimo Decreto, “al fine di dare attuazione alla linea d’investimento 3.1 ‘Nuove competenze e nuovi linguaggi’ della Missione 4 ‘Istruzione e ricerca del PNRR”. Sempre nello stesso Documento si afferma che “a decorrere dall’anno scolastico 2023/2024 le istituzioni scolastiche dell’infanzia, del primo e del secondo ciclo di istruzione statali e paritarie aggiornano il piano triennale dell’offerta formativa e il curricolo d’istituto, prevedendo, sulla base delle Linee guida di cui al comma 1, azioni dedicate a rafforzare lo sviluppo delle competenze matematico-scientifico-tecnologiche, digitali e di innovazione legate agli specifici campi di esperienza e l’apprendimento delle discipline STEM”.

Approccerò questo documento secondo cinque direttrici: geopolitica, ordine del discorso, epistemologica/culturale, antropologica e ortodidattica.

Geopolitica

Nel documento in oggetto si afferma che “STEM è l’acronimo inglese di diverse discipline: Science, Tecnology, Engineering, Mathematics e indica, pertanto, l’insieme delle materie scientifiche-tecnologiche-ingegneristiche”. Sempre nello stesso documento, si afferma che “l’acronimo è nato negli Stati Uniti a partire dagli anni 2000 per indicare un gruppo di discipline ritenute necessarie allo sviluppo di conoscenze e competenze scientifico-tecnologiche richieste prevalentemente dal mondo economico e lavorativo”. Dunque, il primo passo che ha dato origine alle STEM è facilmente riconducibile ad una questione geopolitica di matrice economica e coincide con gli accordi APEC di metà anni ‘90 sottoscritti dall’amministrazione Clinton con alcuni paesi del Pacifico, Cina in primis. Questi accordi prevedevano di delocalizzare la produzione a basso valore aggiunto (chiaramente favorita dalle politiche cinesi di industrializzazione promosse da Deng prima e da Zeming poi) per tenere negli USA la progettazione e la realizzazione di prodotti ad alto valore aggiunto, in quanto più profittevoli e lontani dalla imminente concorrenza cinese. Naturalmente tutto ciò portò ad una ridefinizione dei profili dei lavoratori, che necessitavano di essere formati a compiti che richiedevano abilità ed uso di strumentazioni diverse rispetto a quelle precedenti. Lo stesso documento rileva che “risultò evidente, anche sulla base degli esiti di ricerche internazionali sul livello di preparazione degli studenti, quali le indagini PISA e TIMSS, la presenza di alte percentuali di studenti con scarse competenze nelle discipline scientifiche, con conseguenti ripercussioni nel mercato del lavoro e sullo sviluppo economico” (pag. 1). Chiaramente è superfluo qui affermare che ogni misurazione rileva ciò per cui è stata pensata. Sempre nel documento si afferma che “gli esiti di questi studi spinsero i governi [e i parlamenti?] di diversi paesi a ricercare soluzioni per migliorare il processo di insegnamento-apprendimento delle discipline scientifiche e tecnologiche, sia incentivando l’iscrizione degli studenti e soprattutto delle studentesse a percorsi attinenti alle STEM, sia individuando modalità più efficaci e stimolanti per l’insegnamento di queste discipline, anche secondo approcci interdisciplinari”. In poche parole, i governi cominciarono a cambiare la scuola sulla scorta di test tarati sulla misurazione delle nuove necessità industriali, chiaramente rilevando grosse carenze e ritardi, soprattutto in un contesto- quello statunitense- in cui le scuole statali faticavano ad insegnare secondo una prospettiva culturale – preparando così giovani brillanti in tutti gli ambiti della vita- e mancando anche, dall’altra parte, di un insegnamento di taglio pratico-professionalizzante.

Ecco dunque, sulla scia di queste necessità educative partorite dal mondo del lavoro, a sua volta plasmato dalla geopolitica, le linee guida STEM. 

L’ordine del discorso

Riprendo questo concetto da Michel Foucault1, il quale afferma che c’è sempre un insieme di regole, di limiti, di procedure, di interdetti che sottostanno a ogni discorso e lo rendono possibile, determinandone la validità o meno. In questo senso, non esiste un ordine del discorso neutro, etereo, che prescinde da una struttura che ne rende possibile l’esistenza. Nel caso delle linee guida STEM, qual è questo ordine del discorso che informa le stesse Linee?

Come già visto, questo ordine è economicistico e risponde a una razionalità strumentale dove la prospettiva culturale come quella dello sviluppo del pensiero critico, almeno nel documento in analisi, è uno specchietto per allodole, così come alcune citazioni di grandi pensatori del passato (Leibniz, Spinoza, Galileo) che rispondono sempre alla logica strumentale, dal momento che sono decontestualizzate e innestate nel documento per dimostrare altri concetti. Se, viceversa, si prendessero queste citazioni nel loro senso rigoroso e veritiero, esse non consentirebbero di suffragare alcunché. La controprova sarebbe far tornare in vita questi studiosi per vedere se sottoscriverebbero interamente, in nome delle loro idee, un siffatto documento. L’esito sarebbe alquanto esilarante. Paradossalmente, questi nomi svolgono la funzione dell’ipse dixit col suo portato fideistico e anacronistico, oltre a rivelare la concezione dell’interlocutore cui si rivolgono: un perfetto ignorante, che ha un’infarinatura di qualche grosso nome da attivare con riflesso pavloviano. Parimenti, questo scomodare grandi pensatori potrebbe trovare un riscontro nei discorsi afferenti al marketing che vengono fatti dagli amministratori davanti agli investitori di una società: uso di belle espressioni per veicolare sofisticamente la volontà di chi comanda.

Direttrice epistemologico/culturale

Ma veniamo alle perle epistemologiche, ovvero le motivazioni che suffragano, da un punto di vista più strettamente scientifico, le STEM. A pagina 2 del documento si legge: “perché la matematica è così importante per la società attuale? La risposta più naturale, ma anche più banale, è che è utile”. Bene, utile a chi, a che cosa? Ma qui ci soccorre il grande Galileo riportato poco oltre: “la matematica è il linguaggio in cui è scritto il gran libro della natura”. Ah beh, se lo dice liberamente lui col Sant’Uffizio alle calcagna! Ma poco più avanti si afferma: “la matematica si è sviluppata in relazione alle esigenze della vita quotidiana: il calcolo per fornire una risposta a problemi quali lo studio di un moto, ecc.” con la virgola prima di ecc. Inoltre, viene più volte ribadita la necessità di approcciare i fenomeni secondo il metodo induttivo, perché il dato di realtà deve sempre essere compresente (chissà che colpo per il povero Schroedinger e tutta la meccanica quantistica!).

Sempre a pag. 2 si afferma che “grazie alla matematica, alla fisica, e alle scienze sperimentali, l’uomo è stato capace di intervenire sull’ambiente che lo circonda. Tutta la tecnologia prodotta è figlia di questo azzardo, della scommessa che gli uomini non sono fatti a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Povero Dante, epurato di ogni componente morale della sua opera e assoldato ad un agire sulla natura che trova il suo inizio almeno 400 anni dopo di lui. Quanto rigore filologico in questo documento.

Sempre a livello epistemologico, si afferma a pag. 2 che “tutte le scienze fisiche e sperimentali seguono l’approccio matematico”. Chissà cosa risponderebbe P. K. Feyerabend che aveva scritto Contro il metodo2, fedele a una concezione anarchica delle metodologie di ricerca.

Si afferma inoltre, a pag. 3, “il sostegno allo sviluppo delle competenze negli ambiti STEM ha trovato espressione nella Raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2018”. Questo, se ci fosse bisogno di un’ulteriore prova, è il retroterra della concezione economicista sottostante all’ideologia STEM, che non ha nulla a che fare con un approccio epistemologico. La ragione di queste linee, si afferma ancora a pag. 3, è quella di “non subire la tecnologia che ci circonda […] tramite la cosiddetta matematica del cittadino si possono formare studenti capaci di interpretare i tempi moderni proiettandosi verso il futuro tecnologico”. Si prescrive dunque un interpretare che necessariamente deve sfociare in un futuro tecnologico. 

Direttrice antropologica

Da un punto di vista antropologico si delinea, con la citazione precedente, anche il tipo umano emergente. Un tipo diverso da quello emancipato e “libero” attraverso la cultura, rielaborata e tradotta nel linguaggio e nel sentire intimo di ciascuno. Cultura e sapere non hanno più questa funzione di compimento della soggettività e trasformazione del mondo, perché il nuovo obiettivo della scuola è quello di modellare un tipo umano adatto per l’ambiente di stampo economicista che si è ipostatizzato e presupposto, come quello affermato in apertura; e dunque senza cultura e senza un sapere che non sia tecnico-pratico. Un soggetto il cui bene è stato dislocato nel contesto e che quindi, per goderne i frutti e per sentirsi realizzato, è costretto ad introiettarne i canoni epocali. Così il bene individuale viene ammannito dal sistema, a cui il singolo si confà non più costretto, ma attraverso la sua volontà, come ben aveva previsto Foucault, chiamando questi strumenti di disciplinamento “tecnologie del sé3”. Appartenenti a queste, è “la valutazione delle competenze STEM” (pag. 11), “essenziale per guidare e migliorare il processo di apprendimento […] consentendo agli studenti di identificare i propri punti di forza e le eventuali aree di miglioramento” così come “la gestione del tempo […]l’autovalutazione e la pianificazione individuale”. Anche la stessa informatica e le tecnologie, con il particolare uso che ne viene caldeggiato nel documento, rappresentano degli strumenti per il disciplinamento.

Non solo si verifica l’adattamento al contesto, ma lo stesso individuo diventa fautore e promotore del sistema stesso. Quasi superfluo affermare che una siffatta concezione vede il soggetto come capitale umano da estrarre e monetizzare. Nessuna stilla di risorse deve essere dispersa in questa logica estrattiva; così nel documento in analisi si stigmatizzano più volte le differenze di genere nel successo delle STEM, con le femmine che presentano risultati inferiori ai maschi. Questo successo va distribuito a tutti, non per spirito egualitario, ma per uguaglianza e massimizzazione dello sfruttamento. Questo è il quadro che sottende l’orientamento descritto a pag. 12, funzionale a non sprecare nessuna frazione di questo capitale umano, perché ogni individuo deve inserirsi prontamente e competendo nei posti che il sistema ha lasciato sguarniti. Questa logica estrattivista da applicare a tutto, emerge anche a pag. 3, quando si afferma che a STEM va aggiunta la A di Arte, con lo scopo di rimuovere “le barriere tradizionali tra materie e discipline” così che non si frappongano diaframmi disciplinari che potrebbero ostacolare lo sfruttamento totale. Infatti “le discipline non vanno presentate come territori da proteggere definendo confini rigidi, ma come chiavi interpretative disponibili ad ogni possibile utilizzazione” (pag. 3); lo si è visto nel documento in esame con l’appropriazione di Dante per finalità che solo Bacone arrivò a teorizzare secoli dopo. A livello antropologico, il soggetto è visto come sempre in ritardo rispetto al mondo a cui deve adeguarsi e tutta la sua opera deve essere volta a ridurre questo disallineamento, a prendere la forma mimetica di ciò che è. Nessuna possibilità di compiere l’inespresso che ognuno ed il mondo portano, dal momento che l’ideologia intende già espresso il secondo, a cui il primo deve adeguarsi. Si delinea quindi una individualità succube del mondano al quale deve pre-pararsi e dal quale riceve linfa vitale; ogni dialettica viene soppiantata dalla primazia del mondo sul soggetto e dell’esterno sull’interno. Questo diventa palese a pag. 12 del documento, quando viene affermato il “ruolo che possono rivestire le discipline STEM per il potenziamento delle competenze e delle capacità di ciascuno”. Sempre in quest’ottica è da intendere l’orientamento affermato a pag. 12: non più un orientamento che ha come punto cardine il sé, ma l’esterno, così che l’individuo vada ad occupare i posti lasciati vacanti, sempre nella logica sottesa di sfruttamento del capitale umano.

Altra riflessione merita la particolare concezione dello studente, espressa con una citazione di M. Montessori: “per insegnare bisogna emozionare” (pag. 3). Una scoperta dell’acqua calda, dato che l’emozione ha sempre fatto parte di ogni aspetto della vita, scuola compresa. L’emozione mette infatti in collegamento il corpo con la mente ed è sentire comune che chi emoziona apre molte più porte nell’apprendere rispetto a chi non lo fa. Però nel documento in analisi -considerato l’ordine del discorso rilevato- si nota il rischio di un uso regressivo di questo emozionare, un concetto che si presta ad essere usato in modo strumentale ed epidermico come nel marketing, alla ricerca di una adesione immediata del soggetto a quanto proposto, con l’effetto di appiattirlo su di esso invece che aprire varchi proprio a partire da esso. Si corre anche il rischio – se l’emozione non trapassa nell’appassionarsi, concetto questo ben più profondo dato che sopporta sconfitte, fatiche e difficoltà in virtù della sua correlazione con gli strati più profondi della personalità- del consumo dell’emozione; un’emozione che produce piacere e conferma il soggetto com’è, in modo affine allo choc ben studiato da Benjamin; choc che sottomette ad esso l’individuo, che sarà portato a ricercarne continuamente per sentirsi vivo grazie una vita dispensata dall’esterno ed in esso ricercata in modo cumulativo. Escludo che l’emozionare fosse sfuggito per caso, perché è l’unico verbo che fa riferimento all’insegnare, essendo tutto il documento incentrato sull’apprendimento4. Ma forse qui l’intento è volto al negativo, con l’attribuzione di questa mancanza agli insegnanti, che per questo devono fare lezione ad alto tasso di valore espositivo.

Qual è il soggetto sotteso da queste Linee guida? Egli è un bambino, che va fatto emozionare, fatto sentire al centro in modo immediato, con attività pratiche, laboratoriali e sfide, che mantengano alta la soglia di percezione di attività. Questo bambino-studente va fatto giocare (pag. 7), evitando ogni astrazione che diventa noiosa (pag. 2). Non si capisce qui perché quella di uno studente che ascolta, rielabora e dialoga col proprio insegnante che spiega, sia considerata passività. Forse si considera solo il moto produttivo concreto della mano e non quello intellettuale della mente?

Qual è ruolo e rilevanza del soggetto nell’approccio STEM a scuola? Egli non è più il centro né il fine dell’insegnamento (con i saperi intesi come mezzi per il compimento/trasformazione di sé e del mondo a seguito dell’agire soggettivo) e parimenti non è considerato nell’agire educativo, dal momento che, una volta fissato in modo rigido l’obiettivo da raggiungere – ovvero il mondo così com’è dato – sparisce ogni creazione, sostituita dall’efficacia e dall’efficienza nell’andare a bersaglio. 

Ortodidattica

Essendo la didattica dipendente dal fine, ed essendo questo predeterminato e coincidente con la forma dominante del mondo, ne consegue una didattica prescrittiva. Nel documento, infatti, non è fatta parola per alcun contenuto, perché esso è il mondo dato, e tutta l’attenzione è rivolta alle metodologie e al come, sottintendendo il cosa. L’ortodidattica fa strame delle peculiarità degli allievi, delle classi e degli insegnanti, al netto dell’autonomia e dei singoli PTOF.

Ecco la prescrittività didattica che permea tutto il documento. A pagina 5 si afferma che “i finanziamenti contribuiscono allo sviluppo di una didattica innovativa, alla condivisione di buone pratiche, alla realizzazione di iniziative, anche extrascolastiche […] per stimolare l’apprendimento delle discipline STEM e digitali”. Perfettamente aderente a questa concezione di educazione, è il learning by doing (pag. 6) che limita l’immaginazione e la teoresi perché fisso sul piano concreto, così come lo è il problem solving, che ritorna spesso all’interno del documento. Questa modalità stimola infatti l’applicazione su problemi già dati da altri e già ben definiti, a cui magari basta applicare il coding – citato a pag. 12- come metodologia per frammentarli in parti più risolvibili, in assonanza con la cibernetica. Conseguente a questo è il lavoro per progetti che, oltre a portare frammentazione perché indipendenti tra loro, presuppongono come già dato il risultato da ottenere.

Sempre nel documento si prevede un approccio collaborativo e interdisciplinare alla didattica (pag. 6). A questo proposito risultano illuminanti le parole di J.-F. Lyotard che differenziano il moderno dal postmoderno. Il primo era “un gioco ad informazione incompleta, il vantaggio è di chi sa e può ottenere un supplemento di informazione. È per definizione il caso di uno studente in situazione di apprendimento. Ma nei giochi ad informazione completa, l’acquisizione di una maggiore performatività non può consistere nell’acquisizione di un tale supplemento. Essa deriva da una nuova organizzazione dei fatti […]. Ciò si ottiene per lo più attraverso il collegamento di serie di dati ritenute fino ad allora indipendenti”. Nel postmoderno, “il rapporto col sapere non è quello della realizzazione della vita dello spirito o dell’emancipazione dell’umanità; ma quello degli utilizzatori di uno strumento concettuale e materiale complesso e dei beneficiari delle sue prestazioni. Costoro non dispongono di un metalinguaggio né di una metanarrazione per formularne la finalità e l’uso corretto. Ma hanno il brain storming per rafforzarne le prestazioni. La valorizzazione del lavoro di equipe è propria di questo prevalere del criterio performativo nel sapere5. Il successo delle prestazioni dovuto al lavoro di équipe vale “nel quadro di un modello ben definito, vale a dire nell’esecuzione di un compito; il miglioramento sembra meno sicuro quando si tratti di ‘immaginare’ nuovi modelli, cioè nella concezione”. Le parole di Lyotard combaciano perfettamente con quanto afferma il documento a pag. 6, quando incentiva il lavoro di gruppo e l’apprendimento tra pari, ossia il sostare su di uno scenario dove l’insegnante non porta il contributo di chi sa di più, perché tutto è interno al gioco ad informazione completa; ecco che la matematica non è più astrazione verso l’infinito, ma “funzioni e relazioni, dati e previsioni” (pag. 8). Parimenti, a pag. 7 a proposito del pensiero critico si afferma che: “può essere incoraggiato attraverso attività che richiedono la raccolta, l’interpretazione e la valutazione dei dati”. Anche qui il pensiero critico dipende dalla cumulatività e dalla quantità di informazioni; chiaramente, senza un sapere profondo altro, nessuna uscita dal dato sarà mai possibile, se non un mutare riguardo ad esso. Il superamento di modelli trasmissivi” enunciato a pag. 7 si inserisce in questo scenario, dove la mobilitazione frenetica sostituisce l’attività riflessiva visibile perché il moto non è più lungo il piano verticale, ma orizzontale. Un modello in cui l’informazione è già completa e si tratta solamente di lavorare alle relazioni tra gli elementi così come sono dati, eliminando i possibili ostacoli che intralciano la velocità. Si spiega in questo modo il fatto che, nel documento in analisi, la relazione umana non sia presente. D’altra parte, se il gioco è ad informazione completa e tutto è appiattito sul dato, si esclude ogni cammino di perfezionamento umano, in cui anche l’insegnante si inserisce. Ecco che nella scuola così delineata tutto è mediato da metodologie e tecniche che sostituiscono ogni indeterminatezza che dà il tendere a qualcosa, relazione umana compresa.

Conclusioni

La concezione che sottostà alle Linee guida STEM è quella di un adattamento prescrittivo al mondo così com’è dato, perché lì è stato capziosamente dislocato il bene del soggetto.

A pag. 13 del documento si dice chiaramente che “il coding, il pensiero computazionale e l’informatica offrono strumenti e conoscenze necessarie per comprendere, utilizzare e contribuire al progresso tecnologico. L’inclusione delle competenze connesse al coding […] all’informatica nel percorso educativo può preparare gli studenti alle sfide e alle opportunità offerte dal mercato del lavoro digitale. L’acquisizione di tali competenze può favorire l’occupabilità degli individui e contribuire alla crescita economica e all’innovazione del paese”. Come si vede, c’è solo da fare i conti con ciò che già è; un dato di fatto inemendabile, fatto di mercato del lavoro (e non mondo del lavoro, dove profitto, concorrenza e capitale umano sono molto meno espliciti, perché legato all’attività umana e non all’accumulo di qualcuno e alla competizione), di capitale umano e di crescita del paese, così che possa finanziarsi a tassi più favorevoli sulle grandi piazze finanziarie mondiali. L’occupabilità diventa uno dei fulcri del discorso, non secondo quanto affermato nell’art. 1 della Costituzione italiana, bensì in chiave di non dispersione del capitale umano. La scuola non serve più ad avvicinare essenza ed esistenza del soggetto in chiave emancipativa, ma solo ad inserirlo nel mondo per poterlo sfruttare con meno intralci.

Con una postilla per il futuro che deve risultare a noi un monito: “un corretto e consapevole utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito scolastico, può fornire varie opportunità formative […] soprattutto in contesti in cui le risorse sono limitate”. Ormai è esplicito che la scuola subirà un vincolo di risorse e se la giocherà meglio chi di essa farà a meno, dato che la scuola di stampo umanistico non risponde più alle esigenze del mondo nella forma dominante.

Che futuro ci aspetta se ci poniamo all’interno di questo “ordine del discorso”6?

1M. Foucault; L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1972.

2P. K. Feyerabend; Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 1979.

3M. Foucault; Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.

4Cfr. G. Biesta; Riscoprire l’insegnamento, Raffaello Cortina, Milano 2022. 

5J.F. Lyotard; La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.

6Significativo che molti Collegi docenti abbiano sottoposto a votazione l’approvazione delle Linee guida STEM per il loro inserimento nel PTOF. Come se si potesse non applicare un Decreto ministeriale. Implicita la vestizione democratica e deliberativa di un obbligo calato dall’alto. A testimonianza dell’impianto dell’autonomia scolastica, che mostra le volute rigidità e verticismo, nonostante affermi il contrario. 

Il sergente di ferro e l’omino di burro

Qualcuno vuole far credere che sul futuro della scuola si confrontino soltanto due posizioni.

La prima sarebbe quella del sergente di ferro: «Zitto e studia, se non sei preparato ti boccio. Senza i sacrifici non si ottiene niente; e se non capisci lo stesso vuol dire che la scuola non è fatta per te».

La seconda quella dell’omino di burro: «Siccome ti voglio tanto bene, evito di farti stancare troppo e di proporti attività troppo impegnative. Se una cosa è difficile, evito di insegnartela e anche di dirti che non la sai. Dopo tutto, la vita è bella così com’è».

In realtà in questa biforcazione, proposta e riproposta da reazionari dichiarati come da certo furbo para-progressismo sempre contiguo al potere politico e funzionale allo smantellamento dell’istruzione pubblica, manca proprio una cosa: la scuola. Quella che accompagna, che sta vicino, che chiede degli sforzi motivati, che fa conoscere progressivamente agli studenti una realtà che va molto oltre la loro esperienza quotidiana. Quella per cui se una cosa è difficile non la evito, magari in nome di una presunta “personalizzazione degli apprendimenti” che lascia gli studenti esattamente dove sono, ma faccio in modo di insegnartela: non me la cavo trasformando l’istruzione in “life skills”, “competenze non cognitive” o “orientamento”.

Il punto è che una scuola che insegna davvero, nei tempi e nei modi più adatti alle classi che si hanno di fronte e a una situazione educativa che è sempre unica, lascia poco spazio per i giri di soldi in finta “formazione” e in “innovazione” tanto redditizia quanto astratta. La scuola che insegna davvero attraverso una relazione umana e il lavoro sulle conoscenze è un costo e chi ci guadagna, in fin dei conti? Solo gli studenti e il futuro. Sembra che oggi questo non basti.

Scuola è vita

[Ripubblico questa nota per smentire la narrazione secondo cui gli insegnanti dovrebbero essere “formati” ogni volta da zero, come una tabula rasa, e perché l’invasione degli ultra-formatori legata al PNRR può allontanare ulteriormente la scuola da se stessa]

Mi scuso per la nota personale. Sono entrato a scuola grazie a due concorsi ordinari [ora tre], ho frequentato la SSIS e due corsi di perfezionamento annuali post lauream in didattica della lingua e della letteratura italiana, insegno da ventiquattro anni, dieci dei quali, dopo il ruolo, li ho passati nella scuola media, dodici in istituti tecnici. Per molti anni sono stato responsabile della prevenzione del disagio giovanile nella mia scuola, coordinando uno sportello d’ascolto psicologico gestito con grande bravura e passione dallo psicoanalista Alessandro Zammarelli.
Il dottor Zammarelli ha aiutato ragazzini che praticavano atti autolesionistici come il tagliarsi o il ferirsi, che avevano vissuto esperienze devastanti e dipendenze di ogni tipo, che avevano subito gravi violenze fisiche e psicologiche, che vivevano in contesti familiari spaventosi; abbiamo collaborato con la giustizia per allontanare definitivamente figure abusanti dai ragazzi.


Sono quasi venticinque anni che passo tutte le giornate con i miei studenti, nel fango come sulle cime insieme a loro; ne ho visti – a centinaia, forse a migliaia, ormai – crescere, e trovare lentamente la loro strada; ho toccato con mano il loro bisogno di confronto con gli adulti, la loro disperata ricerca delle parole, le loro paure, le loro angosce, i loro silenzi, la loro inesauribile curiosità, la loro simpatia e generosità, la loro voglia di vivere, le loro infinite domande sul significato del proprio stare al mondo, quelle a cui solo le parole e l’essere parte di una comunità umana e culturale – attraverso il confronto con gli altri e quello guidato con le infinite esperienze di altri esseri umani che si sono fatte storia e cultura – possono aiutare a cercare risposta, senza sentirsi troppo soli.
Infine, posso dirlo? Non tutti, ma ci sono tanti colleghi che lavorano di più e meglio di me: da loro – oltre che da decenni di studio, di esperienze e di scoperte – ho imparato molto di quello che so; da loro continuo a imparare ogni giorno qualcosa e scopro di nuovo in quale altro modo si può insegnare, arricchire e qualche volta cambiare la vita dei nostri studenti.

Ora, arrivano persone nate baroncini universitari, portaborse per tradizione familiare, manager aziendali, promoter di “classi 4.0”, lobbisti, burocrati carrieristi o “esperti” di ogni sorta che non hanno mai messo piede in una classe e che pensano di conoscere i ragazzini – pieni come sono di astratta ideologia – e il mondo dell’istruzione, qualcuno per aver letto o aver scritto qualche libro (secondo la logica rovesciata per cui, se riuscissi a farmi pubblicare un libro di astrofisica, diventerei per ciò stesso un esperto in materia); persone che, leggendo il nostro manifesto (https://nostrascuola.blog/2021/03/20/manifesto-per-la-nuova-scuola/), sentenziano (non si sa su che base, per un tic che ormai non passa nemmeno più per il pensiero) che abbiamo in mente solo il liceo classico (!), che vogliamo la scuola gentiliana, la scuola per pochi, che vogliamo l’insegnante con la predella: questo solo perché vogliamo continuare a istruire, a far pensare e a far crescere tutti i nostri studenti in un ambiente protetto e con degli adulti che si prendano davvero cura di loro, a partire dall’alfabetizzazione fino all’acquisizione di conoscenze fondamentali e allo sviluppo di tutte le loro capacità umane, in uno spazio pubblico e democratico riservato solo a questo. Ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate, se non ci fosse da disperarsi per la manipolazione e l’incredibile disonestà introdotta a forza nel dibattito da chi vede nella scuola, dopo la sanità, la nuova gallina dalle uova d’oro da smantellare e da spremere, a scapito dei ragazzini, e cerca pezze d’appoggio a questo progetto, per non doverlo dichiarare in maniera troppo esplicita.

Beh, in tutto questo, chi è in buona fede dovrebbe cominciare ad ascoltare gli insegnanti, che possono sbagliare ma sanno almeno di cosa parlano; chi è in malafede, dovrebbe subito togliere le mani dalla scuola.

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Da bambino non riuscivo a imparare le tabelline. Mi ricordo che a un certo punto mio padre mi ha portato per tre pomeriggi consecutivi ai Castelli romani e per ore interminabili, togliendo sicuramente tempo a uno dei lavori che faceva per mantenere la famiglia, mentre passeggiavamo nel bosco, mi ha fatto ripetere i numeri “a salti” per migliaia di volte. Ho imparato le tabelline e non le ho dimenticate mai più. Qualche anno dopo, alle scuole medie, è successa la stessa cosa con il canto di Ulisse, che dovevo imparare integralmente a memoria. E, ancora oggi, “lo maggior corno de la fiamma antica…”, “quando mi dipartii da Circe…”, “né ‘l debito amor che dovea Penelopé far lieta…”.

Beninteso, questi lavori di memorizzazione erano relativamente rari: la nostra maestra delle elementari, Annamaria De Longis, era una giovane meravigliosa idealista mandata a lavorare in pieni anni ’70 nella periferia più che estrema della borgata di Trigoria, a quindici chilometri di nulla da Roma. Della professoressa di Lettere delle scuole medie, la “terribile” professoressa Boffa che ci chiamava alla cattedra per le interrogazioni con la formula dantesca “qui si parrà la tua nobilitate”, ricordo sempre il sorriso ironico e la frase che mi disse quando in classe parlavamo delle paure legate a una possibile fine del mondo in un 2000 ancora lontanissimo: “Io sarò morta da tempo, ma tu che sarai già laureato riderai di tutte queste superstizioni e mentre brinderai all’anno nuovo magari penserai per un momento alla tua vecchia professoressa”. Così è stato.

Penso che gli studenti non siano spaventati come si vuol far credere dalle discipline (che sono difficili, sì, ma come tutto ciò che ancora non si conosce) o dai voti; penso invece che siano terrorizzati dall’assenza o peggio dall’indifferenza degli adulti. Adulti che oggi (purtroppo anche tra quelli che si occupano di scuola, a tutto danno della scuola), concentrati sulla domanda “cosa ci guadagno con il PNRR?”, hanno sempre meno voglia di dedicare davvero il loro tempo a bambini e adolescenti.

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Un brevissima riflessione dopo l’incontro del nostro gruppo con il dottor Alessandro Zammarelli (psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista della Società italiana di psicoanalisi relazionale)

Ora, nella greppia del PNRR, arrivano addirittura corsi per “allenare l’empatia”, in una tecnicizzazione/standardizzazione che punta a mettere sotto controllo gli stessi rapporti umani. In realtà basta che gli insegnanti diventino un punto di riferimento per le persone in crescita – invece che facilitatori anonimi in “ambienti di apprendimento innovativi”, burocrati/esecutori del didattichese astratto delle competenze o “orientatori” abusivi – perché ci sia educazione affettiva attraverso la relazione e il lavoro comune su contenuti culturali connotati anche emotivamente. L’affettività non si insegna, si vive
(su “orientamento” e dintorni cfr.https://laletteraturaenoi.it/2023/10/09/lorientamento-nella-scuola-delle-competenze/).